San Carlo Borromée vers 1715-1720
Terre cuite dorée, 31 x 21 cm
Provenance : Nicolò II Caprara, Palais Caprara, Bologne, 1724 ; Giuseppina di Eugenio di Beauharnais (duchesse de Galliera de 1813 à 1837), Palais Royal de Bologne (anciennement Caprara), 1823 ; Raffaele Luigi De Ferrari (duc de Galliera de 1838 à 1876), Palais Royal de Bologne, 1837-1877. L'œuvre a probablement été mise sur le marché des antiquités entre la fin du XIXe siècle et la première moitié du XXe siècle.
Note: cornice originale in legno intagliato e dorato; quattro etichette a tergo della cornice dove sono leggibili le seguenti indicazioni: a) Duca [di Galli]era, n. 15[…]; b) 1823, Palazzo di S[ua] A[ltezza] R[eale] La Duchessa di Galliera, Marca dell’Ambiente n. […], Marca dell’Inventario n. 1[…]63; c) Ducato di Galli[era], Inventario 1837, n. 1511; d) Palazzo R[eale] di Bologna, Appart[amento] di I° Rango, Camera n. 163, n. 1041
L’opera è in un discreto stato di conservazione: la doratura della terracotta permane quasi del tutto; una crepa attraversa trasversalmente la metà superiore del bassorilievo; alla figura manca il dito di una mano. La cornice in legno dorato, con motivi a foglie di quercia, è quella originale, ed è in buone condizioni pur presentando una frattura nella parte superiore.
Come attestato dai cartellini datati 1823 e 1837, posti sul retro dell’armatura, il rilievo proviene dal palazzo Reale di Bologna, già Caprara, sede della Prefettura dal 1927.
L’edificio venne costruito per volere di Francesco di Ercole Caprara a partire dal 1561, e nel 1806 venne venduto da Carlo Montecuccoli Caprara, insieme alla sua collezione, a Napoleone Bonaparte. L’anno successivo, l’imperatore donò lo stabile alla neonata principessa Giuseppina di Beauharnais, e creò per lei, nel 1813, la circoscrizione del ducato di Galliera[1]. A seguito del matrimonio di Giuseppina col principe ereditario Oscar Bernadotte di Svezia, celebrato nel 1823, una piccola parte della collezione Caprara venne esportata e introdotta nei beni della corona svedese. Nel 1827 il marchese Raffaele Luigi De Ferrari rilevò la proprietà unitamente alla sua collezione, e ottenne dalla ripristinata corte pontificia il titolo di duca di Galliera. A un anno dalla morte di De Ferrari, occorsa nel 1876, la vedova Maria Brignole Sale donò i possessi bolognesi ad Antonio Maria Filippo Luigi d’Orléans, duca di Montpensier e Infante di Spagna. Durante questo passaggio «il patrimonio mobile subì drastiche riduzioni, ancora prima della cessione di Palazzo Caprara allo Stato, avvenuta nel 1927»[2]; cessione che non impedì ulteriori dispersioni[3].
Grazie agli studi condotti da Massimo Zancolich sugli archivi della famiglia Caprara è stato possibile recuperare la documentazione più antica relativa alla storia di questo bassorilievo[4].
Nell’inventario del 1823 l’opera viene descritta come «un detto [quadro] di terra cotta dorata rappresentante un San Carlo entro cornice come sopra [intagliata e dorata]» [5], collocata in una delle camere da letto poste al primo piano del palazzo, nell’area in quel momento adibita ai Generali e separata da quella delle Dame.
Con la fine del possesso Beauharnais, nel 1837, l’opera è catalogata con un nuovo numero di marca[6]; ed è nuovamente menzionata nell’inventario del 1877, stilato dopo la morte del duca Raffaele Luigi De Ferrari. In quel momento, l’oggetto risulta collocato nella «Grande Galleria» ed è descritto come «ovale in terra cotta e cornice di legno dorate rappresentante San Carlo»[7]. Oltre questa data, l’opera non è più rintracciabile.
Che il rilievo facesse già parte della collezione Caprara rilevata dalla corte napoleonica nel 1806, è confermato da un inventario stilato dopo la morte di Nicolò II Caprara, tra il 1724 e il 1726[8]. Grazie alle letture comparate degli inventari di famiglia del XVII e XVIII secolo effettuate da Zancolich, si può affermare con relativa certezza che a quelle date l’opera venisse registrata per la prima volta: «nella camera di cantone in galleria verso San Salvatore […] un ovato con un San Carlo di terra cotta dorato, e cornice di legno dorata»[9]. Si tratterebbe, quindi, di un acquisto effettuato entro il 1724, ascrivibile a uno dei cicli di domanda-offerta più prolifici e capillari del mercato d’arte bolognese di età barocca, quello delle immagini in terracotta destinate alla devozione privata[10].
Per certi versi accostabile alle vicende delle arti plastiche napoletane, il caso di Bologna, sembra caratterizzarsi per l’interesse delle botteghe di mantenere costante la produzione di opere in piccolo formato come statuette, figure presepiali, bassorilievi, non solo d’invenzione, ma anche dipendenti dai modelli delle opere monumentali più fortunate. Per via del loro materiale, si trattava di opere accessibili a molti, dallo scarso valore economico (il San Carlo è valutato solo dieci lire nel 1724, e cinque lire nel 1877) ma cercate, apprezzate, e presenti sistematicamente anche nelle dimore aristocratiche. A seconda della loro qualità, dimensione, soggetto, o destinazione, potevano trovarsi negli ambienti di rappresentanza, venire esposte nelle mostre organizzate da famiglie e parrocchie durante le festività religiose, essere collocate nelle cappelle private, o nelle camere da letto[11]. Ed è quest’ultimo il caso del rilievo Caprara: un capoletto nel quale San Carlo è rappresentato frontalmente, in ginocchio, in atto di preghiera, quasi uno specchio per il pregante che vi si rivolge. L’autore dell’opera decide di animare la posizione della figura inclinandone leggermente il volto, spostando il busto e le braccia di quinta, lasciando scivolare all’indietro un ginocchio nascosto dalle pieghe del rocchetto che, soffici, si intrecciano tra loro e si appoggiano illusionisticamente al bordo dell’ovato. Nel riprodurre la consueta fisionomia del santo, l’artista tenta di ingentilirne le asperità, attenuando lievemente i volumi degli zigomi e del naso adunco, insistendo piuttosto sull’espressività dello sguardo rivolto verso l’alto, aperto e commosso, marcato da un’eloquente estensione dell’arcata sopraccigliare. Dalle mani congiunte affiora qualche nodosità. La mozzetta e il rocchetto, di una morbidezza palpabile, sono coinvolti in un moto che traduce visivamente l’ardore spirituale del cardinale. La superficie di fondo, come quella dell’aureola, sono decorate attraverso l’uso di una stecca dentata.
Gli aspetti appena descritti portano a collocare l’opera nell’ambito della scultura bolognese di inizio Settecento, quando le solennità dell’operato di Giuseppe Maria Mazza (1653-1741) vengono attenuate dalla sua scuola sulla scorta degli esiti più vaghi e decorativi cercati dal maestro nelle opere di piccolo formato. È, in particolare, il percorso giovanile del suo allievo Angelo Gabriello Piò (1690-1769) a collimare con le caratteristiche dell’ovato. La plausibilità di questa attribuzione è inoltre suggerita dal terminus ante quem ricavabile dalla più antica menzione inventariale nota. L’esecuzione di questo oggetto, d'altra parte, non può ritenersi troppo anteriore rispetto al 1724, se non altro per ragioni formali, e proprio intorno a quegli anni Piò si stava rivelando uno dei nuovi protagonisti della plastica emiliana.
Secondo le fonti, Angelo si era inizialmente accostato ad uno dei primi allievi di Mazza, Andrea Ferreri (1673-1744)[12], che del maestro aveva assorbito i modellati più teneri e l’inclinazione per la ricerca di una sintesi formale nelle composizioni. La sua prima operazione a noi pervenuta è il ciclo di bassorilievi con Storie di Cristo (firmati e datati 1711 e 1712) eseguiti per la Compagnia dei Battuti di San Giovanni in Persiceto (oggi presso il locale Museo di Arte Sacra). Tra le opere di piccole dimensioni, la seconda realizzazione certa è la coppia di Contadini del Museo Davìa-Bargellini di Bologna, firmata e datata 1721 (inv. 122). Tra questi due cardini, stando alle fonti, si inseriscono un viaggio a Roma (1718) e operazioni su scala maggiore come le statue di Casa Cavazza (1719 circa) e quelle per la chiesa del Carmine a Medicina (1721).
Nei rilievi persicetani, i volti delle figure sono ancora in forte debito con le fisionomie di Mazza, rotonde, con occhi allungati e bocche piccole. Nel San Carlo i lineamenti si asciugano e vengono leggermente caricati, ma non solo per motivi iconografici: labbra carnose, zigomi esposti, fronti spiegate, occhi grandi, mani nodose, saranno un interesse ricorrente nel percorso dello scultore lungo tutti gli anni venti e oltre, laddove ammesso dal personaggio raffigurato – si ricordino soprattutto i Contadini del 1721, ma anche il Re David e il San Giuseppe del Davìa-Bargellini (inv. 163; 4291).
La struttura e i panneggi complessi delle figure nelle Storie di Cristo si semplificano nel San Carlo, avvicinandosi a quelli dei Contadini del 1721. I volumi pieni delle terrecotte persicetane, si assottigliano, acquisendo la foggia tipica dei rilievi maturi[13]. Subentra un modellato meno pittorico, più sintetico, con passaggi d’ombra più sfumati e meno vibranti, ad eccezione del rocchetto che genera un’intermittenza di pieni e vuoti cercata per imitare la plissettatura del lino. Permane un gusto decorativo che indugia sui risvolti casuali nei bordi delle vesti, e sull’idea di agitarne i lembi, mossi dall’aria o da un movimento, creando un disegno curvilineo. Ulteriori segni distintivi sono la cura per dettagli accidentali come le bottonature semiaperte (nel San Carlo, nei Contadini, nel Re David), o il proposito di utilizzare il perimetro dei rilievi come parte integrante della narrazione e non come limite del racconto: fin dalle opere prime, le figure e gli oggetti possono valicarlo, oppure, gli si appoggiano – come nel nostro caso.
Alla luce delle argomentazioni stilistiche fin qui esposte e dei confronti portati all’attenzione, risulta plausibile una datazione tra le Storie di Cristo del 1711-1712 e i Contadini del 1721. La terracotta Caprara aggiunge così una nuova raffinata prova delle sperimentazioni dell’artista su questo formato, entro tale decennio.
Davide Lipari
[1] Per la storia del palazzo e delle collezioni, riassunta in più punti all’interno di questa scheda, si rimanda a G. Fabretti, Il Palazzo di Bologna e i destini delle collezioni, in I Duchi di Galliera, a cura di G. Assereto et al., vol. II, Genova 1991, pp. 905-922.
[2] Ivi, p. 913.
[3] M. Zancolich, Frammenti di una collezione dispersa: la quadreria Caprara, in «Il Carrobbio», 29, 2003, p. 106.
[4] Cfr. Ivi, pp. 97-110.
[5] Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASB), Ducato di Galliera, busta 10, Inventario delle Mobiglie esistenti nei Fabbricati situati in Bologna che formano corredo e dote distinta, c. 135v.
[6] «1511: Un quadro di terra cotta dorata rappresentante San Carlo entro cornice come sopra [intagliata e dorata]» (ASB, Notarile, serie 4/12, anno 1837, atto del 4 novembre, Inventario e stima di tutti i quadri di ragione delle Sue Altezze Reali i Principi di Svezia e Norvegia esistente nel loro Palazzo in Bologna, eseguita il 26, 29 e 30 settembre 1837, cc. n.n.).
[7] Trascrizione del 2002 gentilmente concessa da Massimo Zancolich, tratta da un documento originale che non è stato possibile consultare, oggi conservato presso l’archivio privato del Palazzo Orléans-Borbón di Sanlúcar de Barrameda.
[8] Nicolò II Caprara muore il 23 aprile 1724. In uno degli atti rogati in quell’anno dal notaio Angelo Michele Bonesi per la figlia di Nicolò, Maria Vitoria Caprara, rappresentata dal suo procuratore Pier Francesco Castelli, si legge che quest’ultimo ha l’obbligo di «proseguire e perfezionare il detto Inventario, e di quello farne seguire pubblico rogito» (ASB, Notarile, serie 5/6, libro 1549, atto n. 48, Aditio Hereditatis et Inchoatio Inventarij Legatis bonae memoriae Domini Comitis et Senatoris Nicolai Caprara, cc. n.n.). L’inventario legale è pubblicato dallo stesso notaio l’8 gennaio 1726 (ASB, Notarile, serie 5/6, libro 1554).
[9] ASB, Notarile, serie 5/6, libro 1554, Inventario delle Pitture ritrovate nell’Eredità del Signor Senatore Conte Nicolò Caprara stimate e valutate dal Signor Cesare Giuseppe mazzoni Pittore, cc. n.n.
[10] Cfr. R. Grandi et al., Presepi e Terrecotte, catalogo della mostra di Bologna, Bologna 1991.
[11] Per un approfondimento sulla produzione e fruizione di terrecotte nell’area bolognese in età barocca, si rimanda ad alcuni contributi fondamentali: G. Perini, Struttura e funzione delle mostre d’arte a Bologna nel Sei e Settecento, in «Accademia Clementina. Atti e memorie», 26, 1990, pp. 293-355; R. Grandi et al., op. cit.; O. Bonfait, Le collectionneur dans la cité: Alessandro Macchiavelli et le collectionnisme à Bologne au XVIIIe siècle, in Geografia del collezionismo. Italia e Francia tra il XVI e il XVIII secolo, atti delle giornate di studio (Roma, 19-21 settembre 1996), a cura di O. Bonfait et al., Roma 2001, pp. 83-108; G. Adani et al., Il fascino della terracotta. Cesare Tiazzi: uno scultore tra Cento e Bologna (1743-1809), catalogo della mostra di Cento, Cinisello Balsamo 2011; S. Massari, Giuseppe Maria Mazza e l’accademia di palazzo Fava: nuovi documenti, nuove opere, in «Nuovi studi», 19, 2013, pp. 193-209.
[12] Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, ms. B 130, c. 127; G. Zanotti, Storia dell’Accademia Clementina, II, Bologna 1739, p. 245.
[13] Cfr. E. Riccòmini, Vaghezza e furore, 1977, catt. 22, 23, 41; S. Tumidei, in Presepi e Terrecotte, cit., p. 33.